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Subject: Re: Buon Natale 2015
Date: Sat, 13 Dec 2014 21:37:39 +0100
BORSA DI STUDIO PER EMIGRATI ITALIANI DI SECONDA E TERZA GENERAZIONE RICERCA PRESSO IL CENTRO INTERNAZIONALE DI STUDI DELLA CIVILTA' ITALIANA - FONDAZIONE GIORGIO CINI - ISOLA DI SAN GIORGIO MAGGIORE - VENEZIA
La Fondazione Giorgio Cini di Venezia ha istituito una borsa di studio residenziale di sei mesi del valore di 12.500 euro per consentire agli italiani “di seconda e terza generazione”, ossia figli o nipoti di italiani emigrati all’estero per motivi di lavoro, di tornare nel Paese d’origine per trascorrere un periodo di ricerca presso il Centro internazionale di Studi della Civiltà italiana “Vittore Branca”. La borsa di studio è destinata a dottorandi, per il compimento di una tesi, o a post-doc interessati allo studio della civiltà italiana - e in particolare veneta - con un orientamento interdisciplinare in uno dei seguenti ambiti: storia dell’arte, letteratura, musica, teatro, libri antichi, storia di Venezia, civiltà e spiritualità comparate. Scadenza bando: 31 gennaio 2015 Vedasi bando allegato
Cordiali saluti.
Loredana Flego
Progettazione, Amministrazione, Bilancio
Associazione Veneziani nel Mondo
C/o Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura di Venezia Via Banchina Molini, 8 30175 Marghera - Venezia Tel. 0039.041.2411908 Fax: 0039.041.786417 Web : www.venezianinelmondo.it E-mail: info@venezianinelmondo.it Pec: venezianinelmondo@pec.it
Vetro di Murano, eccellenza Made in Venice su : www.yourmurano.com
Guida turistica di Venezia off line: www.yesvenezia.com
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esci dalla tua terra
Sguardo di italiani emigrati all’estero sulla nostra vita italiana
“Siamo nati e cresciuti in un società in cui senza i soldi non si ottiene nulla o quasi: dalla scelta di dove abitare, al tipo di casa, alla scuola dei figli... Ecco perché la crisi la sentiamo tutti e tutti ne parlano. Dal denaro abbiamo una totale dipendenza. Ma ora in Italia si respira un’aria di resa.” Marianna, una giovane studentessa trevigiana alla London School of Economics, si sfoga con lucidità.
“È il fallimento della nostra società,” confessa. Ne cita un sintomo: il suicidio. È diventato un fatto ricorrente nei giornali: tutti ne raccontano, nessuno pare preoccuparsi di un’analisi. Lo raccontano come fossero casi isolati, incapaci di scavare più a fondo. L’angoscia, un tempo, di costruirsi una posizione a tutti i costi, senza preoccuparsi di coltivare dei valori, si è come rivoltata contro di noi: una specie di cortocircuito che ha fatto saltare il senso della vita. «L’uomo è ciò in cui crede...» ricordava Anton Cechov.
E poi, spesso ci si è limitati a far crescere un figlio unico, perchè anche i figli – in una società come questa – quasi come una merce... costano. E, inconsciamente, lo si sente ripetere spesso; il fattore economico è ancora in questo caso determinante. Un giorno maledetto, per un incidente qualsiasi, muore il giovane e il mondo vi crolla addosso.
“Esci dalla tua terra!” Così, oggi ad ognuno Dio rivolge il suo misterioso invito. È il punto di partenza della fede: il primo passo di Abramo sospinto unicamente dalla fiducia in Dio e dai suoi valori. Ci eravamo appassionati di poterci installare, di sentirci sicuri di noi e del nostro mondo... È ora di riscoprire, invece, che cosa significa mettersi in cammino, cambiare abitudini, credere ai valori, uscire dal mondo delle nostre certezze. Dio attende alla frontiera.
Il mondo è cambiato sotto i nostri piedi. Un mondo plurale, dalle tante culture, dalle minoranze emarginate, dalle fragilità nascoste, dai giovani calpestati dal modello di vita costruito da noi stessi. Un mondo fondato su valori grandi ma perduti, come l’accoglienza, il senso di sacrificio, la rettitudine, lo spirito di servizio.
Interessante risentire l’invito di tanti italiani emigrati all’estero come Marianna: “Esci dalla tua terra!” Non sfugge loro che in patria si è coltivato per anni un piccolo mondo antico, il senso del privilegio, il culto dell’immagine e dell’apparire, il gusto del possedere, l’abitudine ad approfittarne, il senso del gruppo chiuso. All’estero, delle società più moderne e la loro stessa avventura migratoria li hanno abituati a ben altri aspetti della vita, più rispettosi dell’altro e del vivere comune.
“Che cosa vuole?” si sentono perentoriamente chiedere al paese, presentandosi ad un ufficio. E da tanti segni vi si fa capire di rappresentare un’istituzione e la sua onnipotenza, alla quale semmai spetta concedervi qualcosa. All’estero osservano spesso, al contrario, che la prima preoccupazione è spostata dalla struttura alla persona e alla sua realizzazione. Un altro modo ricorrente di interpellarvi, pure, vi sorprenderà: “Can I help you?” (Posso aiutarla?) Anche questo rivela, in fondo, un senso di servizio.
Ogni istituzione, sia politica che religiosa, dovrebbe essere continuamente assillata da un’unica domanda:“Come posso meglio servirvi?” E ciò mostrerà dov’è il suo vero centro di gravità: se in se stessa o nell’altro, che è chiamata per vocazione a servire. E vi dirà anche se per caso il servitore, senza accorgersene, sia diventato padrone, la cosa comune un feudo e i suoi responsabili dei signori medievali.
Servire. Perfino Dio un giorno si mise a servizio dell’umanità. Era per far prendere coscienza ad ogni essere umano della propria dignità, a cominciare dai pastori, uomini allora ai margini della società. Oggi, sono forse i nostri giovani, i migranti... Sì, Dio attende alla frontiera. E la sua Terra Promessa si chiama condivisione.
Renato Zilio missionario a Londra
Autore di “Dio attende alla frontiera” EMI 2012
From: fibrars@net11.com.br
To: veneto@grupos.com.br
Subject: [veneto] Convite Oficial e Ficha do Evento
Date: Fri, 6 Nov 2009 11:36:11 -0300
CONVITE
A Prefeitura Municipal de Serafina Corrêa, a Federação Ítalo-Brasileira - FIBRA,
a Associação dos Difusores do Talian- ASSODITA, com o apoio do Comitê da Etnia Italiana
têm a honra de convidar Vossa Senhoria para participar, de 13 a 15 de novembro de 2009,
da maior Festa Comemorativa aos 134 anos da Imigração Italiana no Brasil em Serafina Corrêa – RS.
O Talian, tendo como base inicial os diversos dialetos da imigração, é uma língua formada no Brasil.
O Talian é considerado a última língua neolatina. O Município de Serafina Corrêa, com pioneirismo,
estará assinando um Projeto de Lei declarando o Talian como língua co-oficial. O Estado do Rio Grande do Sul,
através da lei 13.178, já declarou o Talian como Patrimônio Histórico e Cultural e o Estado de Santa Catarina
está prestes a fazê-lo. Com o inventário do Talian que está sendo realizado pela Universidade de Caxias do Sul,
sob a orientação do Instituto de Patrimônio Histórico e Artístico Nacional – Ministério da Cultura e Grupo da
Diversidade Linguística Nacional, o Brasil também está prestes a reconhecer a língua do Talian como
Patrimônio Histórico Cultural Imaterial do Brasil e o Talian será considerado Língua de Referência Nacional.
Participe deste momento histórico em que a Língua do Talian será marco da Italianidade no Brasil.
Ademir Antônio Presotto - Prefeito Municipal
Lair Zanatta - Presidente ASSODITA
Paulo Massolini - Presidente FIBRA
Maiores informações e programação: www.serafinacorrea.rs.gov.br
A UNIÃO FAZ A FORÇA!
di Tiziano Graziottin
TREVISO - Ministri e affini li hanno variamente definiti, i nostri ragazzi: bamboccioni, mammoni,
sfigati. Al tavolo di una pizzeria, due giorni prima di partire per l’Australia, Taddeo e Filippo ti fanno pensare che il vizietto di generalizzare tipico della casta – si tratti di politici o
tecnici "risanatori" – continui a produrre equivoci. Loro due se ne sono andati dall’Italia, pronti a fare di tutto, sulle orme di altri 50mila ragazzi dello Stivale che - secondo i dati del
Dipartimento immigrazione australiano - negli ultimi tre anni hanno preso un volo per l’altra parte del mondo. Taddeo Mazzucco ha 19 anni, è di Nervesa come gli altri amici che con lui hanno
fatto la valigia per Sydney, Filippo Casagrande (21) e Andrea Bernardel (20); un altro ragazzo nervesano, Mattia Callegari, 23 anni, li ha prelevati all’aeroporto per portarli nell’appartamento
che sarà la testa di ponte del quartetto per il loro viaggio nel futuro.
Così se ne va dall’Italia e dal Veneto la meglio gioventù, quella che non ne può più delle incrostazioni del Belpaese e dei troppi furbetti del quartierino che campano sulle spalle degli altri.
E’ un esodo impressionante, che porta via il sangue fresco del Paese: non solo e non tanto "i giovani", ma soprattutto quelli che tra loro sono pronti a mettersi in gioco, a rischiare, a
rimboccarsi le maniche. Se da una piccola città di provincia come Montebelluna sono partiti negli ultimi mesi una ventina di giovani tra i 18 e i trent’anni, come ci confermano all’agenzia locale
della Utpull, significa che il passaparola è un fiume in piena e che c’è un’intera generazione con la valigia in mano.
Emigranti come i loro nonni, Taddeo e Filippo non vanno per fare "un’esperienza"; o meglio, su quella vogliono costruire un futuro fuori dell’Italia. Idraulico l’uno, pizzaiolo l’altro, non sono
disoccupati, non è il lavoro che gli manca. Perché allora sbattere la porta e andarsene, perché lasciare affetti e certezze per quello che a tanti potrebbe apparire, e forse è, un salto nel
vuoto? «Lo so – spiega Taddeo – anche tanti amici mi chiedono chi ce lo fa fare. Io rispondo: perché non dovremmo farlo, cosa abbiamo da perdere? Qui è sempre peggio, nell’azienda in cui lavoravo
eravamo 18 e ora sono in nove, gli straordinari che consentivano di mettere assieme uno stipendio decente non si fanno più. Se vivi da solo servono almeno 4-500 euro per un affitto o un mutuo,
devi rinunciare a tutto per arrivare a fine mese. Quello che mi spaventa non è il periodo duro che mi attende in Australia, ma non riuscire ad avere un futuro qui».
Filippo, diplomato geometra, potrebbe continuare a lavorare in pizzeria, ma non se la sente più. «Qui tira brutta aria, la crisi te la senti addosso. Vado via perché voglio avere una prospettiva
di vita, voglio guadagnare decentemente e mettere da parte qualcosa per farmi una famiglia, avere un orizzonte che non sia il tirare avanti giorno per giorno. Certo, con 900-1000 euro al mese
vivi anche qui, ma stai sempre lì a fare i conti di quello che puoi o non puoi fare, e non hai nemmeno i margini per una vita da giovane. Meglio farsi il mazzo a Sydney che diventare vecchi in
questo modo».
Futuro e prospettiva sono le parole chiave, ricorrenti nella conversazione: quelli che ci hanno provato – dicono – ce l’hanno fatta. Taddeo e gli altri sono partiti con un visto vacanza e lavoro
di un anno, rinnovabile di un altro anno; la sfida sarà trovare, alla fine, un imprenditore che dica "io punto su questo ragazzo". «Sappiamo – continua Filippo - che per il primo periodo sarà
durissima, dovremo impegnarci nei lavori che gli australiani non vogliono più fare, proprio come gli immigrati che vengono qui in Italia. Con la differenza che lì c’è un sistema di regole vero da
rispettare, se non lavori fuori dalle p... Per dirne una: se ti beccano che lavori in nero ti accompagnano all’aeroporto senza neanche consentirti di passare a prendere le tue cose a casa. E’ il
Governo che stabilisce in quali settori potremo essere impiegati, e non c’è da scherzare: agricoltura, la vita più dura nei ranch di frontiera; e poi edilizia, miniera, pesca d’altura. Ma io
voglia di lavorare ne ho, sono pronto».
I conti, ovviamente, li hanno fatti: «L’appartamento l’abbiamo trovato su internet - precisa Taddeo – il nostro compaesano Mattia, che è lì da otto mesi, è andato a vederlo e ci ha detto che è
ok. In una settimana ci paghiamo l’alloggio, il resto ci viene in tasca. Io non vado in Australia per restarci sei mesi o un anno, se ce la faccio mi fermo lì tutta la vita». E la determinazione
che si legge nei suoi occhi rivela che dietro questa frase c’è veramente la nausea per un Paese, il nostro, che di prospettive non riesce più a darne, e tanto meno sogni. «Sì, anch’io vado per
restare lì – osserva Filippo – penso sia una grande occasione. Non abbiamo niente da perdere, non può andar male».
Non è scontato, in realtà, che al capolinea del biennio ci sia un posto di lavoro a titolo definitivo: il Governo australiano sta riducendo gli ingressi, ormai sono arrivati fin troppi italiani.
Cuochi e pizzaioli, ad esempio, gli aussie non ne vogliono più. «Eh - allarga le braccia Filippo - se va male si torna a casa con un’esperienza straordinaria, conoscendo bene una lingua, dopo
aver visto tanti posti nuovi. Ma io alla morosa ho detto che mi raggiungerà, quando sarò australiano per sempre».
MARITA DESTI:
AGOSTINA NON ARRIVÒ IN AMERICA
La breve storia presentata è il frutto di un lavoro di ricerca iniziato con la scoperta quasi casuale di una nota a margine di un atto di morte sul registro dei Defunti dell’anno 1876 dell’Archivio Storico Diocesano di Crema (Cr). Fig. n. 1: Nota dell’atto di morte Nella notte tra l’11 e il 12 ottobre del 1876, probabilmente poco dopo la mezzanotte, il piroscafo denominato “Nord America”, in viaggio da Genova a Buenos Aires, rallentò il suo cammino e, dopo pochi minuti, spense i motori. Si trovava in quel momento al largo delle Isole di Capo Verde, esattamente in latitudine 17’ 49” e in longitudine 24’ 15”. Un gruppo ristretto di persone si riunì sotto il palco di comando e rimase in quel punto in attesa. A un cenno del Comandante , due marinai aprirono lo sportello laterale dell’opera morta . Davanti all’apertura si poteva scorgere, al lume delle lanterne, una lunga asse. Uscirono dall’infermeria altri tre marinai che portavano un oggetto senza forma: il cadaverino di una bambina di 12 anni morta poche ore prima. Avanzarono e depositarono adagio il carico sull’asse, coi piedi, ai quali erano state legate due spranghe di ferro, rivolti verso il mare. Il corpo era avvolto in un lenzuolo bianco cucito. Il silenzio intorno era solenne. Giunse il prete che asperse il cadavere , lo benedì e recitò il De Profundis al quale gli astanti risposero con i loro Amen. Il corpo fu benedetto una seconda volta e in quel momento il Comandante diede l’ordine di procedere. Due marinai presero l’asse per le estremità, la sollevarono e la posarono sull’orlo della nave spingendola un poco in avanti. La sollevarono nuovamente e il corpo incominciò a scivolare. Scomparve nell’oscurità e si udì un tonfo profondo. I marinai chiusero frettolosamente lo sportello e tutti sparirono portandosi appresso il dramma vissuto. Il “Nord America” riprese il suo cammino e la povera bambina proseguì la sua discesa solitaria verso l’abisso. Terminava così tragicamente, in mezzo all’oceano Atlantico, la breve vita di una bambina di 12 anni , protagonista di questa storia . Si chiamava AGOSTINA SEVERGNINI ed era nata a Pianengo, piccolo centro nella campagna cremasca in provincia di Cremona, il 13 luglio del 1864 da Andrea e Maddalena Dossena. I genitori si erano sposati a Izano, paese poco distante, nella Chiesa Parrocchiale di San Biagio perché lì era nata la mamma. Maddalena aveva da poco compiuto 20 anni e suo padre aveva dovuto dare l’assenso per il matrimonio perché la figlia era ancora minorenne. Andrea invece aveva 30 anni. Nativo anch’ egli di Pianengo, risultava possidente nel certificato di matrimonio. In seguito, negli atti di nascita dei figli, la professione era mutata da agricoltore a bracciante. La mamma invece era filatrice, come la quasi totalità delle donne dell’ 800 delle nostre campagne. Sicuramente erano entrambi analfabeti, anzi illetterati, come si legge nelle note del certificato di matrimonio. A Pianengo nacquero tra il 1854 e il 1875 sei figli: Marina Agostina, morta a 7 anni nel 1862 per gastro-menengite , Cattarina, morta a 4 anni nel 1864 per pneumonite, Agostina, Giovanni, Agostino e Cecilia Natalina. Della famiglia di Severgnini Andrea non abbiamo altre notizie e non avremmo probabilmente saputo nulla della partenza per il Sud America se non fosse stato trascritto nel registro parrocchiale e in quello comunale l’atto di morte di Agostina. Non è naturalmente possibile sapere se sul piroscafo diretto in America ci fosse tutta la famiglia Severgnini , composta da padre, madre e quattro figli o solo una parte di essa. Nell’ultimo quarto dell’800 tra il 1876 e il 1900 partirono dalla Lombardia 519.000 emigranti, pari al 9.9% di tutta la popolazione migratoria italiana . Il 1° ottobre 1876 il “Nord America”, iscritto al Compartimento Marittimo di Genova e appartenente probabilmente alla Compagnia di Navigazione “Lavarello”, partiva da Genova per Buenos Aires e scali intermedi “con carico di merci e forestieri”. Dieci giorni dopo la nave, dopo aver costeggiato le coste italiane, francesi e spagnole e attraversato lo Stretto di Gibilterra, si era diretta verso le Isole di Capo Verde. Il giorno 11 Agostina moriva per tubercolosi intestinale, malattia dovuta a una infezione della mucosa intestinale per ingestione di micobatteri, secondo quanto scrisse il medico di bordo del piroscafo, dottor Romeo Della Volta. Il cadavere era stato esaminato alla presenza del Comandante del “Nord America” Vincenzo Bollero e di due testimoni e non erano stati riscontrati segni di violenza. Questa affermazione ci induce a credere che sulle navi degli emigranti potessero anche accadere fatti inquietanti. L’atto di morte era stato registrato al Consolato Generale d’ Italia a Montevideo , in Uruguay il 31 ottobre del 1876 ed era stato successivamente trasmesso in Italia al Procuratore del Re a Crema . Era stato infine trascritto nel registro dei certificati di morte del Comune di Pianengo in data 4 giugno 1877 dal Segretario Comunale Bonizzoni Antonio, delegato dal Sindaco a Ufficiale di Stato civile e quasi contemporaneamente nel registro dei morti della Parrocchia di S. Maria in Silvis a Pianengo. Il parroco , Don Giovanni Parati, ipotizzava, forse per un senso di pietà e di solidarietà nei confronti della famiglia, che la salma fosse stata tumulata in qualche isolotto, ma in realtà nulla constava . Altissima era la mortalità infantile in quegli anni. Nel 1876 nacquero a Pianengo 38 bambini. Nello stesso anno ci furono 52 morti di cui 20 di neonati e 15 di bambini di età inferiore ai 10 anni e una delle cause della mortalità era data proprio dalla tubercolosi . Sulle navi degli emigranti la situazione non era diversa. Spiega Augusta Molinari ne "La storia dell'emigrazione italiana" , che il viaggio nel “Nuovo Mondo” si concludeva spesso per i più piccoli in una strage. “Sono soprattutto le epidemie di morbillo e varicella a provocare decessi di massa. La mancanza di cure appropriate, il degrado ambientale dei dormitori, spesso l'incompetenza del personale medico, facevano assumere a quella che era una normale patologia infantile il carattere di una pericolosa epidemia. I giornali sanitari di bordo registrano, nei primi anni del Novecento, alti tassi di morbilità e di mortalità infantile per epidemie di morbillo e di varicella. Sul piroscafo ‘Bologna’ in rotta verso l'Argentina, scoppia nel febbraio 1909 un'epidemia di morbillo. Ne restano contagiati duecento bambini e una ventina di adulti. Dei bambini molti sono neonati che non sopravvivono alla malattia” . Difficile era il viaggio verso l’America. Lo scrittore piemontese Edmondo De Amicis, noto soprattutto per il celeberrimo “Cuore” viaggiò nel 1884 da Genova a Buenos Aires su un altro piroscafo, il “Nord America II” (da lui ribattezzato “ Galileo”) , varato due anni prima , proprio per sostituire il primo , affondato quasi sicuramente davanti alla costa spagnola di Cartagena verso la fine degli anni ’70 del secolo XIX. De Amicis non era emigrante. Andava in Sud America per una serie di conferenze invitato da un giornale argentino, il “Nacional” di Buenos Aires. Raccolse le impressioni della traversata nel libro “Sull’Oceano”, una specie di diario di viaggio in cui descrisse, dal suo osservatorio privilegiato di viaggiatore di prima classe, le vicende di tre settimane di navigazione e le condizioni di vita dei 600 emigranti di terza classe con le loro speranze di trovare un luogo un poco ospitale dove poter vivere. Ma da chi era costituito il popolo che viaggiava su queste navi della speranza e tra i quali potremmo annoverare anche la famiglia cremasca di cui mi sono occupata? È lo stesso De Amicis a descrivere la varia umanità che aveva potuto conoscere, giorno dopo giorno, durante il viaggio: “….era gente costretta ad emigrare dalla fame, dopo essersi dibattuta inutilmente, per anni, sotto l’artiglio della miseria. C’erano bene di quei lavoratori avventizi del Vercellese che, con moglie e figliuoli, ammazzandosi a lavorare, non riescono a guadagnare cinquecento lire l’anno, quando pure trovano lavoro; di quei contadini del Mantovano che , nei mesi freddi, passano sull’altra riva del Po a raccogliere tuberose nere, con le quali, bollite nell’acqua, non si sostentano, ma riescono a non morire durante l’inverno; e di quei mondatori di riso della bassa Lombardia che per una lira al giorno sudano ore ed ore, sferzati dal sole, con la febbre nell’ossa, sull’acqua melmosa che li avvelena, per campare di polenta, di pan muffito e di lardo rancido….” . Un capitolo del libro è poi proprio dedicato alla morte di un contadino piemontese e questa lettura mi è stata utile per la ricostruzione degli ultimi momenti di Agostina. A lei e a tutti i milioni di Italiani che furono protagonisti di questo grande esodo va il mio ricordo e il mio rispetto. E non posso non dimenticare che il fenomeno dell’emigrazione, che ci ha visto protagonisti più di cento anni fa, si ripete anche oggi. Al posto degli Italiani ci sono Popoli di Asia e Africa, i piroscafi di allora sono stati sostituiti da altre “carrette“ del mare, maanche oggi , come allora, qualcuno continua a morire negli esodi, senza che di loro possa rimanere alcuna traccia. A tutti loro, come ad Agostina, è dedicato questo lavoro. Le notizie relative alla famiglia Severgnini, alle nascite e alle morti nel Comune di Pianengo sono state trovate nei Registri dei Battesimi, dei Matrimoni e dei Defunti dell’Archivio Storico Diocesano di Crema (Cremona)